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a cura dello Studio Associato Faggiotto Samorè

C’era una volta un dipendente della società Tuttifelici S.r.l. che, a dispetto del buon nome dell’azienda, nel novembre 2017, decise di sfogare la sua frustrazione su Facebook. Pensò bene di scrivere un post al vetriolo contro il suo datore di lavoro, convinto che nessuno al di fuori della cerchia dei suoi “amici” l’avrebbe visto. Ma ahimè, il post fu come un virus: si diffuse rapidamente e giunse fino agli occhi del capo.

Il capo, indignato, non perse tempo e licenziò il dipendente. Quest’ultimo, non felice della piega che aveva preso la storia, decise di fare ricorso. Prima al Tribunale, poi alla Corte d’Appello, e infine, come in una maratona legale, arrivò alla Corte di Cassazione.

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In Cassazione, il lavoratore sostenne che il post non fosse una prova valida e che i testimoni non fossero tra i suoi amici su Facebook, quindi non avrebbero potuto vedere il post, figuriamoci fare uno screenshot. Ma la Corte, saggia come sempre, con l’ordinanza 6 maggio 2024, n. 12142,  ribadì che una volta pubblicato sul web, anche un post limitato agli amici può diffondersi più velocemente del gossip in un piccolo paese. E così, confermarono il licenziamento.

Nel frattempo, in altre storie parallele, la Cassazione aveva deciso diversamente in casi dove i messaggi incriminati erano scambiati in email aziendali o chat chiuse. In quei casi, i messaggi erano considerati privati e non diffamatori, perché nessuno al di fuori della cerchia ristretta avrebbe potuto leggerli.

Quindi cari lavoratori se avete delle brutte opinioni sull’azienda in cui lavorate tenetevele per voi, altrimenti rischiate di dover cercare un nuovo lavoro!

Studio Associato Faggiotto Samorè

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